venerdì 6 marzo 2015

Tropologías I-V, Andrés Pachón, at Museum of Anthropology, Madrid (Spain)



As a few days ago I was in Madrid, I took the chance to visit the exhibition “Tropologías” by Andrés Pachón, hosted from February, 19th to May, 17th 2015 at the Museum of Anthropology.

“Tropologías” is in intervention in which the contemporary artist works on photographies, artifacts and various elements belonging to the collection of the museum and put them in dialogue with new original artworks. Presents the images as a new document, they reveals the fictions and fantasies of studies we commonly take as truthful.

For a year, in fact, Andrés Pachón researched colonial photo files stored in the documentation of the Museum. From them, and through various tools and means of intervention, Pachon generated new documents that reveal the fictions contained in the original photographs, which reflect Western exotic imagination about life, habits and behavious of the Others. This way, the artist questions the Eurocentric images of time, and Spanish colonial mentality between 19th and 20th century.

Tropología I - STUDY OF FERNANDO DEBAS


In 1887 the photographer Fernando Debas portrayed several Filipino characters, brought to Madrid on the occasion of exhibition of Philippines, one of the colonial exhibitions of those years.
However, the way he put them on stage in front of the camera shows more the imagination of the photographer, who sets his subjects into a wild and exotic environment, more then the reality of the subjects themselves...


Tropología II - ARCHIVE OF DR. RIPOCHE

In 1900 the doctor Ripoche sent to the National Museum of anthropology of Madrid a collection of 400 photographs of human types African, from the Museum of Natural history in Paris.
Each portrayed was photographed head-on and profile, so that European scientists could measure and cataloging the physical characteristics of each breed. The physical differences between the appearance of other races, compared with the European, serving, ultimately, to justify their inferiority.



Tropología III - OF THE PARQUE DEL RETIRO


In 1897, the Crystal Palace, in the Park of the Retiro in Madrid, received a large group of individuals from Ashanti (British West Africa), which were shown in an «ethnographic» exhibition – "human zoo" as they were called in the rest of Europe.
Photographs taken by amateur and professional photographers and belonging to Museum collection are now developed and frames under a glass echoing Crystal Palace windows with the effect of outdistancing the representation: are Ashanty people really as exotic as they seem or it's just western framing revealing us them this way?


Tropología IV - INDIGENOUS REGULAR FORCES IN MELILLA


In 1914 many Moroccans were members of the regular indigenous forces of Melilla, belonging to the Spanish army. Police files were based on Alphons Bertillon French system, which was intended to describe the person objectively. It consisted of two photographs and a thorough physical and sociological description of the subject.


Tropología V – IMMUTABLE MOBILES

From the 18th century the great colonial powers prompted scientific expeditions, bringing Europe plaster or other races photographs to facilitate their physiological study. At the beginning of the 20th century doctor Ripoche sent a collection of these busts, plaster, to the National Museum of anthropology of Madrid. These busts are copies of a conserved in Paris, and not original series made from the face of the represented. They were copies of the copy.

The busts that are depicted in these photographs were sent from the Museum of Natural history in Paris to the National Museum of anthropology of Madrid at the beginning of 1900, thanks to Dr. Ripoche, a Canarian resident investigator in Paris who worked as an intermediary between the French museums and the Spaniards for the acquisition of several collections of photographs and busts anthropological reference.

This last section, part of the work consists of photographs presented as a game of mirrors where digital manipulation and synthesis (3D) images transform their realistic resources on servers of its unreality, making it clear that the footprint of the physical world has become blurred.

mercoledì 10 settembre 2014

Lucía Egaña Rojas e l'identità spagnola





Lucía Egaña Rojas è un'artista catalana della quale ho avuto recentemente il piacere di vedere un'installazione all'interno della mostra Crítica a la razón migrante ospitata presso la Casa Encendida di Madrid.


In questa installazione, da una performance realizzata in strada nel 2006, l'artista mette in discussione il concetto di identità spagnola come qualcosa di chiaramente definibile, e svela le modalità di costruzione - attraverso il ricorso a simboli percepiti come assoluti ma in realtà polisemici e variabili nel tempo, immagini, narrazioni mitiche - di tal immaginario.

Immaginario che è in gran parte inventato, nel momento in cui siamo davanti a un paese che è sempre stato crocevia di immigrazioni lontane nel tempo e recenti così come di distinzioni marcate all'interno dei propri confini nazionali - quella catalana, quella basca, tanto per citare le due più macroscopiche - che addirittura rivendicano istanze secessioniste.

Che cosa sarebbe, allora, questa identità spagnola? Una ragazza che voglia incarnarla come deve essere, quali caratteristiche deve avere? Per esempio, quali caratteristiche deve avere Miss Spagna? E potrebbe la nostra artista candidarsi a tal competizione?
Lucía Rojas indossa abiti 'tradizionali' (in realtà diversi di volta in volta anche nell'allestimento pensato per la mostra madrilena) e rivolge tali domande ai passanti che invita a conversare con lei seduti su un divano installato provocatoriamente davanti a un CIE (Centro di identificazione ed espulsione) a Barcellona. 

 
 
 
 
 




martedì 3 dicembre 2013

Ritratti tra realtà e desiderio: Apagya e la fotografia in Ghana




L'antropologo Tobias Wendl nel 1998 realizza il documentario sul fotografo (e artista) ghanese Philip Kwame Apagya, cogliendo l'occasione per discutere in generale delle arti visive ghanesi (cui si dedica anche Roberta Altin che nel 2004 pubblica in merito il volume L’identità mediata).


Future Remembrance è un viaggio negli studi fotografici nel sud del Ghana. La cultura contemporanea del Paese viene esplorata attraverso gli occhi dei fotografi e di altri professionisti dell'immagine locali, primi tra i quali Nelson A. Events nel sobborgo de Accra e Philip K. Apagya nella piccola città di Shama dove è proprietario dell’atelier P.K’s Normal Photo, ereditato da suo padre. Qui la fotografia è parte di una più vasta cultura retorica che si diletta nelle allusioni e nelle ambiguità. Philip K. Apagya in merito spiega: “l'immagine è un interlocutore silenzioso - ma se sapete guardare un'immagine, vedrete sempre la sua parte interna più nascosta”. Apagya è riuscito a far prosperare l'eredità di famiglia passando dalla foto in bianco e nero al colore, sempre più richiesto per i ritratti, e si iscrive nella lunga tradizione dei ‘fotografi di studio’ che ha caratterizzato la cultura popolare dell’Africa Occidentale in tutto il secolo scorso.
Le sue foto ritraggono i clienti su uno sfondo colorato dipinto a mano dall’artista. Il senso è quello di veder riprodotti e stampati sulla pellicola fotografica il loro ritratto assieme ai loro sogni: c’è la massaia con la ‘sua’ casa con tanto di televisore a colori, di registratore Ivc, una pila di cassette Tdk, un orologio elettrico, un telefono cordless, uno stereo, delle casse, dei bei bicchieri, qualche bottiglia di liquore, il ventilatore, un frigo ben fornito (scatolame, birra, uova, frutta, verdura, un cocomero, ma soprattutto soft drink con etichette colorate delle multinazionali). Per altri clienti ci sono altri desideri: le scalette del Boeing della Ghana Airways su cui mettersi in posa per salire, o la Mecca ‘virtuale’ dinanzi cui inginocchiarsi.

Le scenografie e i fondali vengono definiti da Apagya come ‘pitture primitive’, anche se ai nostri occhi possono sembrare piuttosto simili a fumetti o a murales. Ma di ‘primitivo’ in quelle scenografie non c’è nulla: le persone in posa sono gli unici elementi reali della foto, tutto il resto sono i loro sogni e desideri - desideri legati all’Occidente e alla contemporaneità.
I critici d’arte contemporanea hanno definito l’opera di Apagya ‘iper-realista’ e ‘surrealista’: se la leggiamo con uno sguardo antropologico si rivela un’auto-rappresentazione estremamente originale della cultura popolare nell’Africa di oggi, alimentata dai contatti con i beni di consumo occidentale, che arrivano dalle immagini dei mass media e da foto, video e racconti di parenti e amici emigrati - così che i temi sviluppati sono prevalentemente tecnologie per comunicare (videoregistratore, televisore, videocassette, cordless) e per emigrare (aereo).
La risposta ghanese esprime una rielaborazione dei contatti con le altre culture e con la contemporaneità che non ripiega nell’assimilazione in blocco, ma nemmeno si rifugia nelle riserve etniche tradizionali. Rivela un’interpretazione ghanese dell’idea di modernità che è desiderata, ma contemporaneamente anche ritoccata con toni scherzosi.

L'originalità locale è anche quella di riuscire a mettere in scena questi ‘simulacri di realtà’ senza avere a disposizione né computer, né software per simulazioni digitali, solo una macchina fotografica analogica e una tela da dipingere, e di riuscire ad esprimerli con le loro estetiche e il loro tipico humour, perché in Africa nessuno è tanto ingenuo da farsi ingannare dal trompe l’oeil. Spiega Edgar Roskis che le scenografie di Apagya sono concepite come un “perpetuo gioco di intenzioni e di illusioni, ma che qui vengono enunciate come tali. Egli mescola, nel fondo […] il desiderio dell’operatore e quello del soggetto che può, senza muovere un passo, starsene in una Manhattan luccicante come un juke-box” [Roskis (1999), L’atelier delle illusioni, http://www.mondediplomatique.fr].

Di seguito, il trailer del documentario.
Buona visione! :-)

mercoledì 7 agosto 2013

Esotismo e fotografia nel Giappone dell'800




Questo il sottotitolo della mostra Geishe e samurai in corso al Palazzo Ducale di Genova sino al 25 agosto 2013 che espone 125 immagini realizzate tra il 1860 e i primi anni del Novecento. Una mostra che ci interessa perché interamente costruita sull'incontro tra uno strumento di rappresentazione, le sue tecniche d'utilizzo e il discorso estetico in cui è inserito - e di cui è portatore - e un contesto completamente diverso e in profonda trasformazione storica, culturale e sociale dopo 300 anni d'isolamento. In particolare la mostra illustra l'attività della Scuola di Yokohama - la più importante dell'epoca per la sua rilevanza sia a livello tecnico, sia a livello commerciale, sia ancora per via del numero dei professionisti che ne hanno fatto parte (un migliaio, tra cui una ventina di donne e un centinaio di stranieri).

La fotografia (写真 shashin, lett. "copia della realtà") viene introdotta in Giappone nel 1843 a opera degli Olandesi e dal 1860 assistiamo a una notevole produzione anche dovuta al fatto che il Giappone, che in quel periodo sta entrando in relazione con i grandi del mondo, riconosce tale arte come uno degli elementi del progresso dei quali deve dotarsi per stare al passo con gli altri moderni stati nazionali. Il modo in cui lo fa, però, rivela un classico meccanismo di 'localizzazione', per cui il nuovo elemento - che circola a livello transnazionale (oggi diremo 'globale') - viene rielaborato attraverso l'estetica, le finalità concrete cui è chiamata, e le categorie culturali locali.
La fotografia viene innanzi tutto introiettata nel sistema estetico nipponico: le immagini - si tratta di fotografie all'albumina poi colorate dai maestri giapponesi con pennelli talvolta d'un solo pelo - sono composte ricalcando elementi già alla base dell'arte pittorica locale, e quindi dando valore al vuoto, costruendo linee di fuga che spostano lo sguardo verso la periferia dell'immagine, mettendo in scena pochi soggetti e inserendoli all'interno di uno spazio quanto più possibile essenziale e geometrico, bloccando l' 'ineffabile' secondo quello che è già l'ideale del 'mondo fluttuante' ( 浮世絵 ukiyo-e).

Tutto questo ha come conseguenza, tra l'altro, di rafforzare i soggetti umani rappresentati come 'tipi ideali'. Questa istanza corrisponde in realtà a due funzioni cui è chiamata la fotografia in questo periodo e in questo contesto, l'una per i viaggiatori occidentali, l'altra per i giapponesi stessi.
Il Giappone rappresentato, infatti, è un contesto culturale ideale che da una parte riproduce le aspettative dei turisti che si recano nel Paese e che rappresentano i primi acquirenti delle stampe. I viaggiatori occidentali vogliono il paesaggio da cartolina, i mestieri tradizionali, le donne nelle più svariate situazioni (specie quelle in cui viene esaltato il corpo o la vita notturna proibita) - ovvero la rappresentazione del loro sguardo sul Giappone (una rappresentazione, quindi, parzialmente inventata, se non altro per lo scarto tra aspettativa pregressa e realtà incontrata o fatta loro vivere dai locali). E la fotografia - specie quando il nostro Felice Beato (c'è sempre un italiano di mezzo, sempre!) comincia a collaborare con la Scuola di Yokohama, suggerendo tra l'altro la realizzazione di album-souvenir da vendere ai viaggiatori - risponde perfettamente a tale scopo.
Ciò è perfettamente visibile nell'immagine delle aspiranti geishe ritratte da Kusakabe Kimbei che riprende il tema e la composizione delle Tre Grazie tipicamente di tradizione greco-latina e di qui profondamente europea!

Kusakabe Kimbei, Three young maiko, 1890 ca.

In altri casi, invece, la fotografia di questi decenni si rivolge ai giapponesi stessi, in particolare a coloro che soffrono la trasformazione repentina del Paese per quella modernizzazione che sta provocando forti cambiamenti e rivoluzionando la società, la cultura e tutti gli elementi della vita locale così come vissuta sino a quel momento. Smarriti di fronte al nuovo cui sono costretti, in molti cominciano a sviluppare una forte nostalgia per il tempo remoto, e le stampe del Giappone 'tradizionale' (che anche qui è più un ideale che una realtà del passato) con i loro tipi ideali diventano sorte di rifugi affettivi in cui mitigare la perdita dei costumi e dei valori cui si era abituati e in cui si credeva. I soggetti maschili qui sono i samurai, i preti buddhisti, coloro che praticano arti della lotta tradizionali (quali il sumō o il kendō).

Tutto questo avviene in entrambi i casi con accurate ricostruzioni in interni, in cui gli sfondi sono di volta in volta tessuti o pannelli dipinti con rappresentazioni di ambienti esterni e paesaggi naturali, in cui vengono posti in scena oggetti considerati propri della professione o delle caratteristiche sociali o culturali dei soggetti rappresentati, nonché il medesimo abbigliamento attinge al ricco campionario già di proprietà dello studio fotografico.

sabato 6 luglio 2013

Come partecipare

Un po' di informazioni concrete per chi avesse piacere di partecipare.

Intento del lavoro è descrivere l’identità (al momento delle riprese) dei partecipanti attraverso la messa in scena - da parte loro in collaborazione con la sottoscritta - di sé, con oggetti, abbigliamento, posture e racconto personale. Il lavoro di allestimento e successiva ripresa viene svolto come segue:

- Ogni partecipante verrà ripreso/a in un’apposita sessione al massimo d'una giornata dedicata soltanto a lui/lei. La durata massima di ciascun ‘ritratto’ è di 30 minuti, non necessariamente di ripresa continua.

- In tale sessione la persona costruirà il proprio spazio di rappresentazione secondo i propri desideri, quindi verrà ripresa mentre racconta/usa lo spazio scenico per parlare della propria identità. Per tale ragione è necessario darmi informazioni preliminari relative ai materiali necessari per la costruzione della propria scenografia (tessuti/pannelli per gli sfondi, arredamento essenziale, oggetti) e indicare di quali mi devo fare carico dell’approvvigionamento.

- Tutto il processo di allestimento dello spazio e di produzione del ritratto verrà ripresa per il video del backstage - si documenta il risultato, quanto il processo della collaborazione. 

- Abbigliamento, pettinatura, trucco, posture ecc. concorrono a informare sulla propria identità: anche questi vanno scelti da ciascun partecipante e anche questi possono costituite tema di discussione.


Per facilitare tale riflessione su di sé è stato predisposto un elenco di potenziali interrogativi di diversa natura e grado di profondità (v. oltre): ciascuna persona può scegliere di risponderne ad alcuni, così come ne può elaborare liberamente altri a sua scelta (ovvero: le domande dell’elenco non sono vincolanti, né necessariamente il ‘ritratto’ della persona deve seguire il modello dell’intervista: un partecipante può, per esempio, prepararsi il racconto di sé in precedenza e poi narrarsi davanti alla videocamera).

In qualsiasi momento è possibile sospendere, concludere o cancellare i materiali ripresi che non piacciono/convincono i partecipanti (es. quando un racconto non è ‘venuto bene’ secondo il partecipante, quando sono emerse inavvertitamente informazioni che non si volevano rendere pubbliche, quando si vuole ‘rifare una scena’ ecc.).

Questo lavoro è una ricerca, un progetto artistico, un gioco - la speranza è quella che attraverso questo processo ci conosceremo un po' di più come esseri umani, scriveremo un pezzetto di narrazione della storia insieme, e tutto questo cercando d'essere soddisfatti di ciò che abbiamo creato. Giochiamo seriamente, quindi ;-) 


Falsariga per riflettere sulla propria identità culturale

N.B.: La prima domanda è obbligatoria, le altre no (potete scegliere di rispondere ad alcune, a nessuna o ad altre di vostra ideazione).

1. Nome e cognome, cittadinanza alla nascita, paese d’origine, città d’origine + cittadinanza attuale, paese e città attuale di residenza
2. Lingua madre e lingue conosciute
3. Famiglia, religione, formazione (passata, presente o cui si aspira), lavoro (passato, presente o cui si
aspira)
4. Quale simbolo ritieni essere stato determinante nel renderti ciò che sei adesso
5. Quali parole ritieni essere state determinanti per renderti ciò che sei adesso
6. Quale suono o musica ricordi con nostalgia della tua infanzia
7. Quale musica ascolti e perché
8. Quali profumi/odori ti colpiscono e che cosa ti ricordano
9. Quali colori ti piacciono e perché
10. Quale è il tuo film preferito e perché
11. Quali programmi televisivi guardavi da piccolo
12. Quale alimento/cibo preferisci e perché; cosa provi nel mangiarlo
13. A quali oggetti sei/eri affezionato e perché
14. Quali eventi ritieni essere stati determinanti per renderti ciò che sei adesso
15. Quali attività ritieni essere state determinanti per renderti ciò che sei adesso
16. Che cosa vuoi fare, quale è la priorità della tua vita, in quali valori credi
17. Quali persone ritieni essere state determinanti per renderti ciò che sei adesso
18. Chi/come vorresti diventare
19. Quale ambiente naturale, paesaggio, contesto spaziale preferisci
20. Dove passi, o vorresti passare, la vita quotidiana
21. Quali ritmi vorresti avesse la tua vita quotidiana
22. Ecc. ecc. ecc

venerdì 5 luglio 2013

Il progetto Staged Authenticity




Nella seconda metà dell’‘800 fondazioni e musei finanziavano la realizzazione di raccolte fotografiche di quelle che erano considerate culture ‘in via di estinzione’. I fotografi che si recavano in Africa, Asia, Oceania avevano come scopo quello di realizzare un campionario di tipi e culture umane. In verità tali immagini vennero spesso realizzate ‘in studio’, con evidente disinteresse per il contesto di vita reale dei soggetti ripresi. I soggetti indossavano vestiti e ornamenti che talora non erano propri della loro cultura, ma di altre limitrofe, e lo sfondo retrostante era dipinto con paesaggi che avrebbero dovuto riprodurre il presunto ambiente naturale della loro esistenza.


Il concetto di ‘staged authenticity’ viene applicato ad un’altra invenzione, quella della recitazione di sé da parte del soggetto del film documentario, che vede protagonista negli anni ’20 il regista Robert J. Flaherty. Flaherty girò una serie di sequenze che ritraevano il paesaggio e la vita degli Inuit. L’identità culturale degli eschimesi veniva messa in scena con gli Inuit che negoziavano con il regista le modalità di ripresa, col fine di entrambi di costruire una rappresentazione che restituisse contemporaneamente il proprio sguardo sull’identità dell’altro, lo sguardo altrui su di sé e infine la collaborazione tra i due.

Il progetto ‘Staged authenticity’ è animato dallo stesso intento: esso vuole restituire, in forma di immagini fotografiche e video, l’identità culturale di diversi individui in un centro periodo della loro esistenza - l’identità culturale che sappiamo essere fluida, dinamica, in costante trasformazione - attraverso la ‘messa in scena’ di sé all’interno di un contesto costruito in collaborazione con la antropologa/fotografa/regista, in cui trovano spazio quelli che i soggetti ritengono essere gli elementi simbolici fondamentali del loro immaginario di sé, così come la dimensione culturale della loro memoria e del loro desiderio.

Obiettivo del lavoro è descrivere l’identità (al momento delle riprese) dei partecipanti attraverso la messa in scena - da parte loro - di sé con oggetti, abbigliamento, posture e racconto personale. Ogni partecipante verrà ripreso/a in un’apposita sessione dedicata soltanto a lui/lei. In tale sessione la persona costruirà la propria rappresentazione culturale di sé secondo i propri desideri (abbigliamento, pettinatura, posture, sfondo, oggetti ecc.) quindi verrà ripresa/fotografata mentre racconta/usa lo spazio scenico per parlare della propria identità.

La realizzazione delle fotografie/riprese si svolgerà a partire dall'estate 2013 a Torino (ed eventualmente anche in altre città, in base alla risposta degli interessati).

Per partecipare scrivere a cbalmativola(at)yahoo.com